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Hacker – OpenSource e CyberAntropologia

articolo di Stefano Mele, avvocato specializzato in Diritto Amministrativo e Diritto dell’Informatica e delle nuove Tecnologie. Dottorando di ricerca presso l’Università degli Studi di Foggia. Esperto di spionaggio elettronico e Computer Forensics. Socio fondatore del CapitanLUG (Capitanata Linux User Group)

Quando ho immaginato il titolo per queste mie riflessioni, ho voluto racchiudere quello che è il pensiero filosofico ed etico legato ai personaggi che “popolano” questo mondo nei tre termini: Hacker – Open Source e Cyber-Antropologia.

L’Hacker come la persona fisica che agisce in questo mondo. L’Open Source rappresentativo del suo pensiero e la cyber-antropologia come la manifestazione tangibile del suo operato.

Dovete idealizzare questi tre termini, però, non come concetti tra loro a sé stanti, ma come tre cerchi legati e collegati tra loro in una confluente osmosi.

Sicuramente, se avessi la possibilità di effettuare un piccolo sondaggio in tempo reale, la maggior parte di voi saprebbe dirmi esattamente chi è un hacker. Sentiamo costantemente parlare di violazioni di sistemi informatici, di danneggiamenti, di truffe telematiche, ed i giornali e le televisioni non perdono mai l’occasione di legare questa figura a quella della cosiddetta “nuova criminalità”.

Bene, se questa è l’idea che avete degli hacker, mi dispiace dovermi deludere: non conoscete effettivamente chi essi siano e cadete nell’errore, peraltro davvero comune, di confonderli con i cracker, ovvero con coloro i quali materialmente utilizzano strumenti informatici per commettere dei crimini.

Il primo obiettivo da porsi, allora, è proprio quello di riassegnare a questi soggetti il loro reale peso tecnico e sociale, strappando via questa idea “spettacolarizzata” del fenomeno, che spesso produce più vittime del fenomeno stesso.

Il punto di partenza della nostra indagine sarà allora il “Jargon File”, ovvero il file di gergo degli hacker, da loro compilato in maniera aperta e collettiva, che li definisce come persone “che programmano con entusiasmo; che ritengono che la condivisione delle informazioni sia un bene di ineguagliabile efficacia, e che sia un dovere etico condividere e facilitare l’accesso a queste informazioni ed alle risorse di calcolo”. Questo, infatti, è il reale fondamento dell’etica hacker sin dai primi anni sessanta quando, l’elite dei programmatori del MIT (il Massachusetts Institute of Technology), cominciarono ad utilizzare questo termine per distinguersi dagli altri programmatori.

Il sistema operativo GNU/Linux, la Rete Internet e persino il personal computer come oggi noi lo conosciamo, sono state tutte creazioni geniali di alcuni appassionati che, privatamente, hanno dato forma reale e tangibile alle loro idee e alle loro esigenze. Ma c’è di più. Sempre il Jargon File precisa che un hacker è sostanzialmente “un esperto entusiasta di qualsiasi forma di conoscenza”. Ipoteticamente, quindi, una persona potrebbe anche essere definita un hacker senza aver nemmeno mai acceso un computer!

Nel prosieguo di queste mie riflessioni, allora, leggerete spesso la parola hacker e vorrei che intendeste questo termine nella sua accezione reale; distinguendo l’hacker, ovvero il ricercatore, l’appassionato, l’instancabile curioso, dal cracker ovvero, come innanzi detto, da colui che utilizza le sue competenze tecniche per commettere illeciti informatici.

Fatte le dovute precisazioni, cerchiamo di approfondire adesso su quali concetti si basa l’etica degli hacker.

Raramente, ad essere sinceri, si sente parlare in maniera critica e soddisfacente di questo argomento, così inflazionato ed al contempo così carico di significato.

La nostra ricerca si può basare principalmente su tre prospettive, manifestazioni consequenziali di quei tre cerchi ideali di cui parlavo all’inizio. Analizzeremo allora l’approccio che un hacker ha con il suo lavoro, il rapporto con il denaro ed il rapporto con l’informazione e la conoscenza.